Quando il Giornale d'Italia inventò la Terza Pagina
Di J. Muller
È una sera romana di dicembre, all'alba del secolo scorso. Una folla ciarliera è riunita davanti al Teatro Costanzi. Si respira nell'aria la trepidazione dell’attesa per quella tragedia la cui storia dolorosa da sempre riecheggia nell'animo degli italiani: è la storia di due dannati d’amore, è la storia di Paolo e Francesca, gli eterni cognati-amanti del V Canto dell'Inferno, che rivivono attraverso la tragica partitura di Gabriele D’Annunzio.
Quella sera la “divina” Eleonora Duse è Francesca da Rimini, Gustavo Salvini invece interpreta il ruolo di Paolo. Tra la folla di quell’evento mondano si scorgono anche quattro giornalisti de Il Giornale d'Italia: Diego Angeli intento a osservare la scenografia, Nicola d'Atri ad ascoltare le note mentre Domenico Oliva adottava uno sguardo d’insieme sull’opera e Eugenio Checchi si occupava del mondo che dentro e fuori il teatro si intratteneva.
La loro ricca testimonianza appare sul quotidiano il giorno appresso, subito dopo le prime due pagine di cronaca, in uno spazio interamente dedicato a quella Prima teatrale.
Si inventava così, grazie al direttore Alberto Bergamini (1871-1962) un nuovo concetto culturale, una nuova finestra sul mondo: la terza pagina. La cultura entrava a pieno titolo nelle narrazioni del quotidiano, in una pagina di prestigio con la quale il giornale da nudo veicolo di notizie divenne anche spazio di critica: dalla cronaca al commento, dalla descrizione all’ermeneutica della realtà.
Riproponiamo di seguito un breve estratto da uno scritto del Direttore che racconta quell’intuizione:
“Il primo numero di un giornale crea una sottile commozione: avrei dovuto farlo a sei pagine e mi trattenne l’ingenuo timore di lanciarmi troppo il primo giorno. Anche mi preoccupò il maggiore dispendio della carta: dovevo e volevo far uso coscienzioso, moderato del denaro. Il primo numero del Giornale d’Italia uscì a quattro pagine. Fu un errore. A che serve un giornale nuovo se non ha qualcosa di più o di meglio degli altri che esistono? […] Non dormii la notte inquieto: mi pareva di aver fallito la mia missione. Riflettevo che il bel giorno comincia dal mattino e pensavo che così pensasse il pubblico, ragionevolmente. Riparai molto tardi e fu un altro errore aver indugiato, comunque riparai al venticinquesimo numero. Si doveva rappresentare a Roma la Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio. Non si parlava di altro in tutta la penisola. Tenemmo una riunione e dissi che la tragedia dannunziana fragorosamente annunciata aveva non minore importanza di un discorso dell’onorevole Giolitti ai suoi elettori di Dronero o a una crisi ministeriale, o un concitato congresso socialista”.
(tratto da Alberto Bergamini, “Nascita della Terza pagina”, il Resto del Carlino, Bologna, 3 maggio 1956)
Dopo quella “storica" prima terza pagina dell'11 dicembre 1901 ci volle del tempo per progettarla nella sua forma definitiva, che divenne un’istituzione. La cultura usciva dall’accademia e si sedeva nei caffè, sulle colonne del giornale.
Alessandro D'Ancona, Giuseppe Chiarini, Domenico Gnoli, Raffaele De Cesare, Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana, Federico de Roberto, Luigi Pirandello, Cesare De Lollis, Attilio Momigliano, Salvatore Di Giacomo, Alfredo Panzini, Enrico Panzacchi, Pasquale Villari, senza dimenticare il contributo di Benedetto Croce: sono solo alcuni delle prestigiosissime firme che in quegli anni riempivano quello spazio.
“Palestra dello bello scrivere”, la Terza “un’oasi fra l’arida politica e la cronaca nera”, come la definiva Bergamini, suggellò così il connubio tra giornalismo e letteratura.